Pubblicato in: Politica e Società

La futura classe politica

di linda 19 giugno 2007

Un’insegnante di Palermo rischia due anni di carcere per avere punito un ragazzino di seconda media facendogli scrivere sul quaderno cento volte la frase ‘sono un deficiente’. Ma i genitori del ragazzo non hanno apprezzato il tentativo educativo della maestra e l’hanno denunciata. A rendere nota la vicenda è stato ‘Il Giornale di Sicilia’ qualche giorno fa. Il ragazzino, dodicenne, aveva impedito ad un coetaneo di entrare nel bagno dei maschi apostrofandolo con frasi del tipo “tu non puoi entrare, sei gay, sei femmina…”. Dopo avere risposto a tono all’insegnate, il padre, si è rivolto ai carabinieri. Il pm Ambrogio Cartosio ha così chiesto la condanna dell’insegnante 56enne a due mesi di carcere, pena poi sospesa, per abuso di mezzi di correzione. Dopo 30 anni di insegnamento la professoressa vede messo in discussione il proprio lavoro, solo per avere punito, con una frase dai toni di certo non apprezzabili, un ragazzetto indisciplinato e molto scortese. Magari un ‘non rispetto gli altri’ o ‘mi sono comportato in modo scorretto’ avrebbero sortito un effetto diverso sui suscettibili genitori. O, comunque, avrebbero risparmiato ai posteri l’umiliante figura di un giovinetto considerato ‘il leader’ dai compagni di classe che a dodici anni non sa neanche scrivere la parola ‘deficiente’. L’alunno oltre ad essere ‘molto vivace’, infatti, sembra non conoscere a fondo le nozioni di ortografia, per cento volte la parola ‘deficiente’ è stata scritta omettendo la lettera «i».

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0 risposte a “La futura classe politica”

  1. vincenzo andraous ha detto:

    SCHIAFFI IN FACCIA AL FUTURO

    Nei corridoi di una scuola pavese, una studentessa ha preso a schiaffi il docente, ma soprattutto lo ha ridicolizzato, denudando il malcapitato della sua autorevolezza.
    Bullismo? Atti di vandalismo da residuale avariato mentale? No, più semplicemente è il risultato di un’abitudine alla trasgressione, una specie di attitudine a mandare in pensione la prudenza, che invece serve a individuare il pericolo celato dietro l’angolo camuffato a rettilineo, con la negazione dei propri limiti, optando volontariamente per una vocazione di maledetto per forza.
    La ragazza è stata sospesa per quindici giorni, il fattaccio denunciato alle autorità competenti. Eppure l’impressione che se ne ricava, è che una nuova medaglia al valore sia stata appuntata al petto di una amazzone iraconda.
    A parte l’autocelebrazione connotata dalla gestualità della allieva, quanto accaduto è lo specchio e il riflesso di tratti caratteristici della realtà sociale in cui prendono vita.
    Sarà una ripetizione, una indicazione noiosa, ma c’è un processo di atomizzazione-disgregazione, che inizia da lontano, da mamme indaffarate a procurare il migliore paradiso in terra per le loro creature, da opulenze monetarie famigliari, da deresponsabilizzazioni che consentono il fiorire di ruoli non ben definiti, insufficienti ad arginare una deriva dell’autorità, intesa come credito per l’autorevolezza, che costruisce in ogni ambito il “ futuro possibile “.
    Forse non è il caso di omologare la studentessa in questione con il dilagare del bullismo di periferia, piuttosto bisogna riconoscere in questa fisicità violenta e prevaricante, una difficoltà adolescenziale, un disagio relazionale, che non è ancora devianza, ma deve richiamare attenzione e rigore, per tenere in considerazione l’influenza del contesto sociale senza dubbio conflittuale da cui proviene.
    Qui c’è una ragazza difficile da accogliere, al di là dei guantoni da boxe ancora da acquistare, una giovanissima da ricondurre al centro di un ring ideale dove esistono regole e rispetto per l’altro.
    Il disagio attraversa i più giovani in maniera discordante, non mantiene una scia riconoscibile, è figlio di una insoddisfazione che non trova risposte adeguate, nella sequela di distrazioni e regalie disorientanti da parte del mondo genitoriale-educativo.
    Questo accadimento, se non può esser ascritto al fattore bulling, è invece disabitudine alla fatica dell’impegno.
    Infatti, se da una parte si moltiplicano i comportamenti estremistici in cui valore-disvalore viene condiviso con la propria tribù, dall’altra parte esiste una condizione ben consolidata, che fa riferimento allo sbalordimento, alla stupefazione, come arma di difesa, per proteggere il proprio sistema pedagogico dalle rigidità didattiche.
    Così i giovani si buttano via senza l’orgoglio di una passione, mentre i più grandi dalle cattedre professorali preferiscono sopravvivere, perdendo inesorabilmente terreno per una riconoscibile, e soprattutto riconosciuta autorevolezza, che non consente vantaggi alla violenza, tanto meno di perpetrarla impunemente.

    CHI E’ IL BULLO

    Mi è stato chiesto di spiegare chi è il bullo, e di farlo in modo accessibile a tutti, spendendo il minor numero di righe possibile.
    Non mi è difficile questa operazione, non solo perché lo faccio spesso durante i miei incontri con i ragazzi delle scuole, ma perché chi scrive ha iniziato la propria sequela di inciampi, rompendo le righe dentro una classe dalle elementari alle medie inferiori.
    Per esperienza vissuta so che il bullo è un falso leader negativo, infatti il vero leader sa mediare tra le varie differenze e contrapposizioni, non solo trascinare per carisma.
    Il bullo impone con il terrore, e coarta attraverso la viltà colpendo i più deboli, i più indifesi, servendosi dell’omertà e delle complicità che nascono tra coetanei, nell’indifferenza genitoriale, tra ingenuità e stanchezze professorali.
    Bullo è colui che per quantità e qualità di atteggiamenti violenti, emerge senza incontrare ostacoli, è colui che assume comportamenti prepotenti con persistenza, senza vuoti né ripensamenti a perdere.
    Quando è in atto un disagio relazionale profondo come quello del bullismo, c’è sempre simmetria tra il personaggio del bullo e quello della vittima.
    Il bullo non accetta le regole dell’istituzione scolastica, ma adotta le proprie, personalizzando quelle indotte dal sistema comunicazionale, delle televisioni e dei giornali, usa il gergo malavitoso e recita la parte del duro, un copione rubacchiato qua e là, o corretto e riveduto in qualche cinema.
    Ma quando arriva il momento di pagare dazio, quello vero, certamente non la piccola punizione interpretata come una medaglia da mostrare, il bullo grida la regista di farlo uscire dal film.
    Spesso però è troppo tardi, per la vittima presa a calci e per se stesso.
    Non è bullo quel ragazzino difficile, quello dal contesto famigliare diseredato e più volte lacerato, quello della gomitata consegnata al primo venuto, della pallonata al vetro del Preside, né quello del furtarello, del motorino prelevato senza autorizzazione, neppure è il bullo quello della gang dei minorenni, il bullo non è un criminale, né un deviante posto all’ingresso di un istituto correzionale.
    Il bullo non è quello che in compagnia violenta le ragazzine, il bullo è quello che divide, che picchia, che induce alla recitazione, lancia il sasso e nasconde la mano.
    Il bullo è una fotografia impolverata della nostra bella società, che corre e passa sopra a chi cade davanti per arrivare alla meta.
    Il bullismo è nonnismo, non è ancora criminalità, ma è disattenzione adulta e colpevole perché delega a chi non è capace di parlare ai giovani.

    LA SCUOLA DELLA LINEA MAGINOT

    La scuola chiude i battenti anche per quest’anno, e ancora una volta nelle classi gremite di alunni di oggi e professionisti di domani, ho avuto modo di incontrare vittime e carnefici, in quel bullismo endemico all’istituzione scolastica come alla collettività all’intorno.
    Mi sono confrontato con la prima linea professorale, cosiddetta Maginot, per professionalità, e esperienza educativa, ma anche con quell’altra della retrovia, e ho incontrato quella genitorialità che non ammette sentenze di appello, quando si tratta dei figli altrui.
    Il fenomeno del bullismo è un problema relazionale, che attraversa le nostre famiglie, scuole, città, strade, a causa delle nostre ripetute e reiterate mancanze e inefficienze, e nessuno può sentirsi autorizzato a non farci i conti.
    Per tentare di arginare questo cratere di diseducazione virulenta, è necessario non fare spallucce alle nostre lentezze, e soprattutto alle nostre belle certezze, che non ci consentono di conoscere fino in fondo i dubbi che delimitano aree problematiche di così grande spessore e pericolo per un futuro a misura di uomo.
    E’ l’esperienza a darmi man forte, è la somma degli errori a rendere obbligante un intervento che non può essere procrastinato, tanto meno amputato nella sua incisività da forme di rigetto baronali o peggio padronali, in ambiti che sono demarcati da confini, sì, sottili, ma diventati frontiere da percorrere in lungo e in largo per conoscerne le reali misure di contenimento.
    Indipendentemente da chi farà un passo indietro per porsi dove c’è l’intera panoramica da indagare, è in quest’ottica che dovranno essere presenti quattro poli convergenti: genitori, insegnanti, studenti, territorio, per comunicare tra loro e trasmettere informazioni, movendo una sinergia non di facciata, ma realmente improntata al raggiungimento di obiettivi comuni.
    La scuola è di tutti, soprattutto è comunità e condivisione, allora ciascuno abbia il coraggio di mettersi nei panni dell’altro, e una volta tanto, lo faccia con voce liberante, obbligando la scuola, e così se stessi, dalle gabbie di partenza, quelle recintate con il filo spinato delle deleghe inospitali.
    Occorre sfuggire a quegli atteggiamenti ottusi, in cui è difficile affrontare con un minimo di onestà e umiltà il dibattito per arginare il fenomeno del bullismo, e in cui si preferisce rifugiarsi in fuorigioco, creando una disattenzione che autorizza l’accantonamento del rispetto delle regole, premiando i soliti furbetti dallo spinello facile.
    Occorre sul serio prendere in esame iniziative volte a indagare non più e non solo il mondo degli adolescenti, ma quello adulto, e non solo a scuola.
    E’ necessario approntare servizi di consulto nell’istituzione scolastica, affinché chi è deputato a leggere oltre che a scrivere un voto, possa ritrovare equilibrio e serenità per riconquistare rigore e autorevolezza, rientrando a pieno titolo nel gioco delle relazioni.
    Forse è anche il caso di spiegare a chi genitore lo è, sulla carta, che lo è pure sulla linea mediana della tutela, e che solamente insieme si fa promozione, e prevenzione, sviluppando capacità di partecipazione per progettare interventi rivolti ai ragazzi, azioni di sostegno e accompagnamento urgenti in attesa dell’incontro con il proprio futuro.

    I TATUAGGI INVISIBILI DEL BULLO
    Sono stato invitato a un incontro con gli alunni delle scuole secondarie di 1° grado, con la presenza degli insegnanti e di alcuni medici di base.
    Ho raccontato la mia adolescenza da bullo, da prevaricatore: un cancellino lanciato alle spalle della maestra, la gomitata sulla testa del compagno più debole, il gioco del capro espiatorio che ingiustamente patisce le pene dell’inferno, e calcio dopo calcio, silenzio dopo silenzio, il gruppo si rafforza, tutti dentro quel territorio ben delimitato.
    I ragazzini stanno fermi sulle sedie, ascoltano la mia storia raccontata piano, comprendono che non è quella dei videogames, dei violenti scambiati per eroi, bensì è la storia della vergogna.
    Bulli crescono intorno a una equipe senza tanto tempo a disposizione, attraverso un giudizio espresso senza titolo, con l’impossibilità a leggere più in là di un voto elargito a piene mani.
    Prepotenti e sprinter dell’immediato bruciano le tappe nell’indifferenza colpevole, in quel cancellino lanciato, senza il timore del dazio da pagare, perché nessuno parlerà, nella sfida scagliata senza troppi inciampi, tatuaggi invisibili di medaglie guadagnate sul campo, un potere riconosciuto, che assomiglia a una condanna senza appello.
    I bulli crescono e gli insegnanti sopravvivono, i genitori indisturbati sono in gara per poter vincere il traguardo del benessere, ognuno gioca la propria partita evitando la fatica di un confronto, un comportamento incomprensibile soprattutto da parte di chi è persona pratica della lettura, dell’osservare e ascoltare, di chi annota, verifica, e elabora strategie, per tentare di sfiorare quelle note nascoste, importanti al punto da rimanerne emozionati.
    Adolescenti contaminati si addentrano nella trasgressione, nella devianza, mentre la società si dibatte nelle norme poco condivise, nel rigore e nella severità da usare chiaramente per l’altro, non per il proprio figlio.
    Vittime e carnefici diventano carne da macello, c’è chi muore e c’è chi rimane oltraggiato per l’intera esistenza.
    I ragazzi mi guardano, la mia storia li fa preoccupare, perché con le malefatte perpetrate, prima o poi occorrerà farci i conti, nessuno è infallibile, e nessuno può pensare di continuare a fare il furbo impunito a spese del compagno.
    L’incontro è con i ragazzi, sono qui per loro, perché non abbiano a fare i miei stessi errori da bullo, ma poi è con chi educa che si protrae la discussione, perché non sapere e quindi non intervenire, spiana la strada al riconoscimento di un potere vero e proprio del bullo all’interno del gruppo, e peggio dentro l’Istituzione.
    Il prepotente che emargina il più debole, che esclude gli altri, che colpisce e infierisce, per guadagnare consenso, non è un problema abortito dalla scuola, ma una lacerazione della relazione, che produce incapacità a convivere, nonchè una forzatura al crescere insieme.
    E’ davvero necessario che poli convergenti della collettività si incontrino e si confrontino: studenti, insegnanti, genitori, esperti, per far nascere delle idee e aiutare a diventare adulti insieme, ben sapendo, che se uno solo di questi poli sarà messo in “fuorigioco”, l’intero progetto è destinato a fallire.

    NULLATENENTI DELLE RELAZIONI

    Ora che i riflettori sono stati spenti e la grancassa mediatica ha smesso di emettere suoni scomposti, forse sarà possibile ricordare con maggior delicatezza e buon senso Matteo e i suoi sedici anni.
    Forse sarà possibile rammentare il valore delle parole, quelle che non intendono farsi condizionare da altre più altisonanti, lanciate a grappolo per creare una labirintite artificiale, quelle parole che possono chiarire le responsabilità vere, che non stanno sulle labbra dell’intrattenitore di turno, o sulla battuta pronta di chi vuol rimanere dietro le quinte del dolore, escludendo la possibilità di una via di emergenza che non di rado salva la vita.
    La scuola è un ammasso informe di linee didattiche, spesso contrapposte alle relazioni importanti che fanno crescere.
    La famiglia è diventata un ibrido travestito di buone intenzioni.
    I giovani una tribù di selvaggi tutti uguali, omologati, disordinati.
    Queste erano e sono le etichette e i luoghi comuni con cui si liquidano assai malamente le tragedie di una società caduta in disuso, per l’incapacità di comprendere quanto incivile sia disperdere la propria coscienza critica, anche nel caso questa sottoscriva un malcostume diventato trend nazionale.
    Quanto diseducativo può diventare il tentativo di lenire un dolore lacerante con la divulgazione di verità contraffatte.
    Chi la scuola l’ha abbandonata a un’età obbligante, sa bene che il rimpianto non è una condizione attenuante.
    Chi nella famiglia non ha trovato amore che protegge ma una via di fuga alla cieca, sa bene come la selva oscura può ingannare al punto da farti soccombere.
    Chi in gioventù ha bruciato le tappe del tutto e subito, sa bene come è facile perdere la propria dignità e depredarne parte agli altri.
    Questa è la società che abbiamo in sorte, non era migliore quella precedente, piuttosto siamo cambiati noi, sono cambiate le sensibilità e quindi le attenzioni da esibire: nella fisicità che irrompe nella domanda, nella fragilità che traspare alla risposta.
    Atteggiamento diseducativo a tal punto da semplificare la scomparsa di Matteo come il risultato di una debolezza inconfessabile.
    Allora basterebbe guardare negli occhi quei ragazzi idioti e riferirgli che gay potrebbe significare “ valgo quanto voi “, mentre loro, i bulli del “10 contro 1” , “ non valete quanto Matteo”.
    Basterebbe pensare alla scuola come a un luogo che insegna dalle retrovie la storia che appartiene a ognuno, incocciandone le anse e gli anfratti, mai delegando ad altri oneri propri, mai caricandosi deleghe che non le competono.
    Basterebbe davvero accettarla questa sfida sbraitata dal bullismo contemporaneo, da questi nullatenenti delle relazioni, e facendolo evitare inutili paragoni con il passato, piuttosto cercando di ricordare Matteo con coraggio e coerenza, con la fermezza necessaria a educare al dialogo e all’ascolto.

    BULLI CON LE SPALLE AL MURO
    Guardavo il telegiornale e il servizio che andava in onda parlava di scuola, di studenti, di bullismo. Un telefonino aveva ripreso tutta la scena, il bullo che dall’ultimo banco scagliava un astuccio all’indirizzo della professoressa che stava scrivendo alla lavagna, colpendola alla nuca. Gli altri alunni seduti immobili come se nulla fosse accaduto, mentre l’insegnante in lacrime fuggiva dalla stanza.
    Osservando la scena alla televisione, ho sentito un brivido percorrermi la schiena: in quei fotogrammi, quel ragazzo nascosto dall’ultimo fila, quel lancio codardo a colpire alle spalle, ho rivisto un altro bullo allo sbaraglio, in quei ragazzi educatamente seduti ai loro banchi, ho ricordato altri compagni, in quella fuga scomposta l’umiliazione di altre persone incolpevoli.
    Il telegiornale mi ha rispedito a una classe anonima, dove rimanere un figurante non protagonista del proprio vivere, e diventare “diverso” a scuola, in famiglia, nella strada, è stato il passo più breve per fare conoscenza dapprima con un carcere per minorenni, poi con il resto del panorama penitenziario.
    Le risate dei ragazzi intorno al bullo risuonano come mine vaganti, il filmato ne conserva i ghigni soddisfatti, e in questa desolante attualità, fanno capolino i genitori diventati specialisti forensi, protesi all’assoluzione in formula piena, mentre gli stessi professori sono ridotti a semplici trasmettitori di mere nozioni, poco interessati alla tecnica dialogica, che però consente di instaurare relazioni importanti, che portano alla conoscenza delle retrovie dove scorrono le ansie, il panico, le solitudini, i progetti immaturi che disconoscono le mediazioni.
    In quelle immagini si percepisce una sensazione amara di angoscia, con la tentazione di scrollare le spalle per non chiedersi chi fermerà la mano di quel ragazzo, per evitare una seconda volta che potrebbe rasentare la tragedia, e ci faccia sentire tutti coinvolti, nessuno escluso dal farci i conti.
    Senz’altro è importante che specialisti e riferimenti autorevoli sinergicamente facciano sentire il peso delle loro professionalità, con la messa in rete di interventi capaci, ma forse occorre un’azione ancor più incisiva, e soprattutto invasiva, occorre dare e fare testimonianza attraverso il proprio vissuto, la propria storia personale, dolorosa e inquietante, a tal punto da mettere con le spalle al muro il rischio di una infantilizzazione che nasconde fragilità e vuoti esistenziali.
    A un giovane arrabbiato non è la predicozza a colpirlo sul mento, bensì il porsi a fronte mettendo insieme il coraggio sufficiente per spiegare la sofferenza che può scaturire da un gesto estremo.
    Giovani studenti travestiti da guerrieri, a rimarcare la mancanza di rispetto del mondo adulto, affascinati dalla scoperta della violenza tra i pari, perdendo contatto con le ore ferme, ripetute, nel bisogno di fendere l’aria con il taglio della mano, nel tentativo di rincorrere il tempo che si allontana……..senza però raggiungerlo mai, anzi perdendone i pezzi migliori, quelli più importanti, perché non ritorneranno più.

    BULLISMO E TAUTOLOGIE INCONCLUDENTI

    Adolescenti come plotoni di esecuzione, pronti a destabilizzare i più deboli, sempre addosso a chi non può reagire.
    Bullismo ed eroi di cartone, furbi e codardia sospesa a mezz’aria, una dimensione di imbecillità con la patente a punti di bravi ragazzi, il tutto ben nascosto dalla viltà del gruppo che opprime il singolo.
    Se non ricordo male ai miei tempi, esisteva l’esatto contrario del bullismo attuale, infatti il disagio aggrediva il singolo, ponendolo solo contro tutti.
    Il solitario scopriva gli strumenti della violenza e della diversità, per diventare protagonista, per apparire, nel tentativo di colmare il vuoto in famiglia, la precarietà finanziaria, la mancanza di riferimenti certi, di valori condivisi.
    Quel ragazzo scelse la diversità come propria corazza e propria spada, fino al giorno dell’abbandono della scuola, della famiglia, all’incontro con la strada e con il carcere.
    In questo presente c’è una scuola priva di autorevolezza, una scuola e una famiglia prive di allenatori alla vita, perché dispersi dalla delegittimazione.
    C’è invece un recinto dove incontrarsi per scontrarsi, in preparazione del botto finale da pagare al destino sempre in agguato.
    Le teorie si sprecano nei riguardi della trasgressione, della violenza giovanile, del bullismo, un dispendio inusitato di tautologie inconcludenti, di dottrine pedagogiche che adottano l’eteroeducazione invece di una sana autoeducazione, per cui chi sta in cattedra ritiene di educare solamente gli altri, negando la necessità di doversi formare e rinnovare a un nuovo “sentire educativo “.
    C’è un disamore adulto, che permette fughe in avanti a quanti pensano di aggiustare la propria personalità inadeguata, con la prepotenza degli atteggiamenti omertosi, che mettono in “sicurezza “ i pochi “duri” dell’ultimo banco, dietro ai tanti inconsapevoli complici di molteplici vigliaccate.
    Ieri il bullo era l’unico diverso, destinato immediatamente al macero, oggi è divenuto eroe manifesto, non tanto per la sua fisicità, soprattutto per la silenziosa maggioranza all’intorno.
    E’ un’anomalia istituzionale lo spazio in cui il bullo rimane in piedi eretto come un vessillo, mentre la vittima incassa l’ennesima sconfitta in termini di dignità rapinata e giustizia beffata.
    In questo mare apparentemente sommerso di contraddizioni, incontro tanti giovani, e rimango stupito, perché sebbene non riesca a individuare bulli, furbi, né ottusi, questa mimetizzazione mi conferma l’urgenza di raccontare la storia di quel bullo di altri tempi, di quel coetaneo che s’è perduto in tragedie irripetibili, perché viltà non è dignità, e imbecillità non è intelligenza.
    Diviene davvero un dovere raccontare di quel confine, sì, sottile, ma irrinunciabile, che separa sempre una legge di sangue da una legge del cuore, oppure di quanto è difficile essere uomini per saper scegliere, per saper credere negli altri, per farsi aiutare a diventare architetti di domani.
    Noi continuiamo a parlare di bullismo, mai di professori e genitori in disarmo, perché divenuti autorevoli assolutori, ognuno indaffarato a delineare la soglia minima di attenzione, ciascuno a definire bravate le future scivolate.
    Forse per arginare lo scempio, non serve assumere toni salvifici, o quel falso interventismo di un momento, forse per rendere quel ragazzo meno strafottente, occorre trovare il tempo per guardarlo negli occhi, in forza di una autorevolezza riconosciuta, perché guadagnata sul campo, non certamente perché ereditata dalle fatiche e dai sacrifici altrui.

    DROGARSI NON E’ NORMALE PER NIENTE

    In questi giorni personaggi autorevoli si affannano per mettere in discussione la nuova normativa in materia di sostanze stupefacenti, che eleva la possibilità di detenere cannabis da 0,5 a 1 grammo, spostando il margine di contrasto dell’azione penale sullo spaccio e di quella amministrativa sull’uso personale.
    Al grido ogni droga fa male, nessuna droga è accettabile. si va tutti in avanti, per tentare di arginare la deriva, quella amoralità che coinvolge il mondo adulto, abbandonando ai vicoli ciechi i giovanissimi, sprovvisti di strumenti di difesa, ma ben imbottiti di tecnologie di offesa, prima di tutto verso se stessi.
    Eppure per mantenere alta l’attenzione sul problema droga non c’è bisogno di trucchi sofisticati o di eccessi forcaioli.
    Forse conviene rifugiarsi nel duro della realtà: chi lavora in una comunità terapeutica e di servizio come la Casa del Giovane di don Franco Tassone a Pavia, ben sa cosa significa rimanere in vita dimenticandosi di esistere, e quanta tristezza traspare da due occhi atterrati dalla resa.
    Chi lavora in comunità ed ha la fortuna di scrivere della propria vita personale, e di tante storie vissute, blindate, anonime, è privilegiato nell’apporre una negazione, che non è ottusa né conclusa, bensì convissuta.
    Per l’ultimo libro che sto scrivendo sul disagio ho incontrato circa 180 ragazzi e ragazze, a cui ho posto semplicemente una domanda: come è nata la scelta del vicolo cieco? La risposta che ne è venuta ancora più semplice è stata: tutto è iniziato con qualche canna, tanto per fare gruppo e non essere da meno degli altri.
    Durante un incontro di formazione con alcuni allievi di un liceo, dibattendo sull’uso e l’abuso di sostanze, un ragazzo ebbe a dirmi che la mia avversità e il mio allarmismo nei riguardi della droga, tutta, erano inappropriati, infatti lui qualche spinello se lo faceva, ma non si considerava tossicodipendente, persino i suoi genitori che in gioventù avevano fatto qualche tiro, oggi sono dei professionisti affermati.
    A quel ragazzo ho risposto che ero ben felice per i suoi genitori, un po’ meno per lui e per le troppe cose date per scontate, gli ho raccomandato di buttare un pensiero a tutti quei ragazzi che avevo intervistato, a quelli meno fortunati.
    Un po’ di cannabis non conduce alla dipendenza, eppure per me che osservo la capacità di metamorfosi e il mutamento esistenziale che può indurre, a dispetto degli opinion leaders del momento, di esponenti dei mass media e dello spettacolo, del mondo politico e istituzionale, per me il farsi una canna non è per niente normale, come non lo è picchiarci il grugno a tredici anni o giù di lì.
    Effetti indotti, farmacologici e psicologici, sembrano risultanze incomprensibili, invece esprimono la pericolosità che sta a fronte della disattenzione e del disorientamento causati da una allucinazione consumata nella velocità più virtuale…….il più delle volte però, quella realtà prende il sopravvento, reclamando tutti i dazi da pagare, e tragicamente facciamo i conti con tante e troppe esistenze ridotte a miserie umane.

    ALLE NOVE DEL MATTINO
    Alle nove di un qualunque mattino di una scuola superiore, uno studente del 1° anno è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso: diagnosi, coma etilico.
    Il Preside dell’Istituto mi ha invitato a dare un contributo con la mia testimonianza.
    Mi sono recato all’appuntamento con angoscia, di fronte a un episodio davvero grave; la sensibilità della parola deve camminare con la responsabilità del confronto.
    Nel dialogare per conoscere le problematiche della trasgressione che diventa spesso devianza, di come e quanto nell’assunzione di sostanze, nella più grande discesa c’è solamente la più dura salita, lo spavaldo di turno mi diceva che lui la canna la fumava, ma non si considerava assolutamente un drogato.
    Un altro simpatico provocatore mi sgridava, perché a suo dire non aveva bisogno di nessuno, si aiutava da solo per risolvere i suoi problemi.
    Infine qualcuno ha sostenuto che non c’è necessità di chiedere una mano all’altro, né di affidare ad altri il proprio dolore, meglio custodire nel silenzio le proprie sofferenze, proprio perché gli altri “ ti fregano quando dai fiducia “.
    Senza rendersene conto stavano sciorinando i colpi bassi che avevano condotto in sala rianimazione il loro compagno: le presunzioni, le assenze, le fughe in assunzioni di coraggio al millesimo, il nuovo disagio, quello dell’angolo autistico.
    Fin troppo facile ricorrere all’eredità lasciata e trapassata dalla mia adolescenza, per tentare di avvertire chi ho innanzi del pericolo insito nei rischi estremi, quelli che non hanno parentela con alcuna capacità di scelta né di libertà.
    I ragazzi ora tacciono, riflettono sull’intorno reale, su qualcuno che manca all’appello, ma in questa aula magna, mi accorgo improvvisamente che non riesco a sbattere contro l’inadeguatezza e l’indifferenza dei docenti, di quanti hanno giudicato e condannato, e con la stessa superficialità hanno scelto di andare a fare la spesa o qualche altra commissione, assai meno impegnativa del partecipare a questo incontro, sottraendo alla discussione quella parte di criticità vitale, affinché all’istruire trasmettendo nozioni, possa affiancarsi l’arte dell’educare, tirando fuori e costruendo insieme, intuizioni e passioni e ideali nuovi, perché questo disagio non abbia a decantare lodi all’imbocco dei vicoli ciechi…..
    GIOVANI A VOLTO SCOPERTO

    “Attento potresti passare dei guai: c’è il carcere per i minori che commettono reati, ora fai il duro, ma poi piangerai”.
    Così diceva un vecchio Maresciallo dei Carabinieri, mille secoli addietro, mentre quel ragazzino con le mani in tasca, sfiorava il freddo della lama che aveva imparato a portare con se.
    In questi giorni leggo sui quotidiani di ragazzini arrestati per azioni violente, di ragazzi in gruppo a pestare giù duro.
    Leggo espressioni soddisfatte per le manette ai loro polsi, richieste-scelte di politica criminale che a detta di molti potrebbero risolvere i problemi inerenti la devianza minorile: l’imputabilità abbassata a dodici anni, il carcere obbligatorio…..
    Eppure qualcosa non convince, anche ammettendo che a dodici anni sei consapevole delle scelte ( se davvero ne hai ) e delle responsabilità ( se ti è concesso prenderne ), come un adulto formato dalle esperienze, occorrerà domandarsi in quale struttura penitenziaria fare scontare la condanna o la custodia cautelare a un minore.
    Sì, perché, a tutt’oggi il carcere non lo si riesce a piegare a nessuna utilità sociale, anzi rimane il maggior riproduttore di sub-cultura: entrano uomini ed escono bambini, entrano bambini ed escono pacchi bomba…..per giunta senza fissa dimora.
    Sembra che non esistano strutture alternative al carcere per i minori, sono invece convinto che esistono comunità terapeutiche, trattamentali, di servizio come fra le altre la Casa del Giovane di don Franco Tassone a Pavia, dove l’investimento forte è per la promozione umana, esiste per i ragazzi la possibilità di instaurare una rete di rapporti con persone valide, che sappiano trasmettere non solo nozioni e conoscenze, ma vicinanza ai valori più profondi e condivisibili.
    Una comunità che non è solo uno spazio residenziale, ma un’area con intersecazioni progettuali individuali, indispensabili per l’adempimento di un progetto educativo finalizzato a sottolineare problemi e risorse, quindi a elaborare le difficoltà come le potenzialità, efficace nel sommare la teoria alla pratica, non certamente nel dividerla e classificarla, affinchè con i tanti adolescenti ci si possa guardare per quello che siamo e non per quello che vorremmo essere.
    LO SPINELLO DEL BULLO
    Le file di sedie sono tutte occupate, la classe è schierata nel grande salone della Comunità Casa del Giovane di Pavia.
    Si è conclusa da poco la visita guidata nei laboratori, il dibattito prende il via dopo la visione di un video, in cui il Responsabile Don Franco Tassone, disegna le tante vite bruciate nella frazione di uno sparo.
    Nel salone è scomparso il brusio disturbante, ora c’è tensione dell’ascolto, c’è voglia di capire, di confrontarsi, di accorciare una distanza, e c’è pure chi ha voglia di fare il maledetto per forza: “ mi scusi Vincenzo, non sono d’accordo con lei, io fumo qualche canna, ma non sono certamente un tossicodipendente, credo che l’hascish non faccia male“.
    Droghe leggere, droghe pesanti, quali allora le differenze, se a perdere sono sempre i più giovani, quelli che in leggerezza hanno iniziato e con pesantezza si sono perduti.
    I tempi mutano, noi cambiamo, e le droghe si misurano con le nostre debolezze, si ammodernano sulle nostre fragilità, cambiano abito mentale nelle nostre rese.
    Così è stato venti trenta anni fa per l’eroina-droga-protestataria, così è ai giorni nostri per la droga bianca o in pillole, quella che non consegna più gli uomini ai pugni dritti nello stomaco, ma rende i più giovani attori formidabili di storie inventate da scrittori invisibili.
    Giovani rubati in corse folli contro il tempo che non basta mai, per poi rimanere inchiodati ai bordi di qualche rettilineo, o per buona sorte su qualche sedia a rotelle, fino a diventare vecchi per i rimorsi.
    Il fumo delle sigarette brucia i polmoni fino a morire di cancro.
    Il vino ubriaca fino a morire alcolisti.
    Qualche spinello non brucia i polmoni, non rende alcolisti né drogati, ma in quel volo che fa ridere intontiti c’è la sonnolenza della ragione, c’è il via libera della stanchezza che non placca alla discesa, ma avventura senza attenzione, alla disavventura già prossima.
    Forse quel ragazzo non ha ancora compreso la differenza tra una vocazione di bullo per forza e il coraggio di scendere dal palcoscenico, fare un passo indietro e comprendere che responsabilità e credibilità, provengono dal vissuto conquistato, sperimentato, dalla conoscenza delle lacerazioni e dagli ideali, non certamente da uno spinello.

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